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Bertrand Badré, ex direttore della Banca mondiale: «Necessari nuovi strumenti finanziari altrimenti da questa crisi non usciremo»

"Mai vissuto un periodo così in termini di povertà e tensioni sociali. No ristrutturazioni, chiusure e fallimenti pilotati: bisogna avere il coraggio di adottare una prospettiva rivolta al futuro"

PAOLO POSSAMAI
4 minuti di lettura
Bertrand Badré, ex direttore Banca mondiale. Ha lavorato anche in Société Générale e Crédit Agricole 

L’intervista

La finanza può salvare o può rovinare. La finanza pessimo padrone e ottimo servitore. Attorno a questi concetti non si esercita un filosofo, ma un uomo che ha praticato la finanza ai massimi livelli sia in istituzioni pubbliche (Banca mondiale, Fmi), che in primarie aziende creditizie e assicurative (Credit Agricole, Société Générale). Dentro alla stagione della grande crisi esaltata dal virus, ecco la sua voce, la voce di Bertrand Badré.

Nel suo ultimo libro, lei come tema fondamentale pone la questione di riscrivere le regole per la finanza. Ma vede concreti segni di iniziative politiche che vadano verso questo obiettivo?

«Dopo il 2008, quando abbiamo dovuto raccogliere le ceneri del nostro sistema finanziario, non è stata effettuata una vera riforma sostenibile, resiliente, inclusiva. Ma nel 2015, quando ero all’epoca direttore generale della Banca mondiale e assieme al governatore della Banca d’Inghilterra, abbiamo adottato una sorta di rivoluzione silenziosa. Partiva da una serie di strumenti: abbiamo contato circa 400 iniziative che tendevano a cambiare la direzione della Finanza sotto forma, ad esempio, di bond ecologici, oppure di bond sociali con organizzazioni non governative. Ebbene oggi ci sono i segni di questo cambiamento, ma bisogna andare oltre».

È possibile che i mercati finanziari si regolino da soli? E in alternativa è possibile che un insieme di Stati nazionali definiscano regole valide per un fenomeno di valore planetario come la finanza?

«La regolazione endogena della finanza non ha portato ad altro che al disastro. D’altra parte, la Brexit può dare finalmente all’Unione europea voce in capitolo sulla regolazione finanziaria. Penso l’Europa abbia una sorta di destino, di vocazione storica nel poter trasformare questo importante capitolo. Non credo invece che Biden avrà il potere di influenzare in maniera fondamentale la finanza americana».

Ma lei ritiene che effettivamente l’Unione europea abbia le caratteristiche giuridiche e politiche per intestarsi un processo così rivoluzionario, di scala planetaria?

«Penso che l’Europa sia in grado di porre e presentare un’alternativa. In Europa abbiamo grandi banche internazionali, la Banca centrale europea, l’euro, un presidente della Bce molto sensibile a queste questioni, abbiamo relazioni internazionali privilegiate sia con il Nord Europa, sia con l’Africa, con l’Asia, con l’America Latina. Dobbiamo intervenire perché la popolazione non ha mai vissuto un periodo come questo in termini di disoccupazione, povertà, tensioni sociali di ogni tipo».

Se non vi saranno politiche forti e concertate, vede il rischio che i Paesi, ma anche gli individui, più ricchi, diventeranno ancora più ricchi, e quelli più arretrati ancora più?

«Non potremo uscire da questa crisi se non ci doteremo di strumenti finanziari a nostro servizio. In caso di un’altra crisi economico-finanziaria dura e catastrofica, è possibile si ritrovi la tentazione di tornare ai vecchi strumenti – e quindi la ristrutturazione, le chiusure e i fallimenti pilotati – quando si dovrebbe invece avere il coraggio di adottare una prospettiva rivolta verso il futuro».

È possibile immaginare, come indicato anche dal presidente del Parlamento europeo, un piano di cancellazione del debito, specie per i paesi in difficoltà?

«La questione mi richiama un po’ la mente all’epoca in cui lavoravo con l’ex direttore del Fondo monetario internazionale Michel Camdessus. Era la fine degli anni ’90 ed è stato l’artefice di iniziative molto importanti, tra cui la prima grande intrapresa per la cancellazione dei debiti dei paesi poveri. Oggi devo dire che la situazione però è più difficile. Il sistema multilaterale funziona meno, c’è un minore allineamento degli interessi e poi anche a livello di G20 si vedono veramente pochissimi progressi. All’inizio dell’anno la Banca mondiale e le Nazioni Unite avevano stimato che il fabbisogno per i paesi emergenti, era tra i 2 mila e i 3 mila miliardi di dollari. Ora invece, in marzo, nell’ultima riunione, l’unica cosa che si è riusciti a partorire è stata una moratoria di pochi mesi sul servizio del debito. Quindi come vedete c’è ancora molto da fare».

Per reggere il peso formidabile della pandemia, la gran parte dei paesi occidentali si sta caricando di quote rilevantissime di debito ulteriore. Ritiene che possa rivelarsi insostenibile e che ci possano essere rischi di default?

«Effettivamente, con lo scoppio di questa crisi della pandemia, tantissimi paesi hanno cominciato a far aumentare il debito come se non ci fossero limiti, contrariamente a quello che dicevano precedentemente.

Ma sono soldi che dovranno poi in qualche modo essere rimborsati e gestiti nella durata. Finché ci sarà la fiducia da parte della popolazione, e da parte del sistema nelle capacità della Banca centrale europea e degli altri organismi internazionali come la Federal Reserve, rimarremo in equilibro. Però questo è un privilegio di cui possono godere gli europei e gli americani, i giapponesi, gli inglesi, che hanno appunto un grande ente centrale che può gestire il sistema.

Questo stesso privilegio naturalmente non ce l’hanno i paesi poveri, che non possono contare su istituzioni finanziarie e sulle riserve da mettere in campo».

Prevede interventi dei governi occidentali e delle istituzioni eco-finanziarie per ridurre le differenze di reddito e di capitale tra le fasce più ricche della popolazione e quelle più povere?

«Una domanda fondamentale, che riguarda in primis l’Europa e gli Stati Uniti. Vorrei dire soprattutto gli Stati Uniti, perché qui il gap tra i ceti più abbienti e i meno abbienti sta aumentando progressivamente e non è stato mai così grave, tendenza che si è acuita ed esacerbata a causa dell’epidemia Covid. Senza contromisure, il divario tra ricchi e poveri non potrà che aumentare. Ecco che due idee stanno prendendo forma: la prima è di tassare i più ricchi e la seconda è di sostenere i più poveri. Per esempio, tassare i più ricchi con una patrimoniale, se ne parla molto, è un dibattito molto acceso negli Stati Uniti. Per supportare i più poveri si parla, per esempio, di reddito minimo universale. In termini prospettici, ritengo occorra concentrarci su coloro che sono esclusi dal mercato del lavoro, puntare a una remunerazione decorosa e a un sistema lavorativo che permetta l’inclusione delle persone. E ancora, individuare dei meccanismi dove sia possibile avere un’economia che sia davvero resiliente, inclusiva e sostenibile. Che si agisca a livello di tassazione o a livello di sostegno, poco importa: l’importante è in realtà voler cambiare il sistema».

In effetti il lavoro negli ultimi 10 o 15 anni ha avuto una remunerazione calante in Occidente. È anche questo un effetto, come lei scrive in un suo libro, di “una crisi da globalizzazione incompleta”?

«La globalizzazione finanziaria e tecnologica va molto più rapidamente di quella etica, morale e giuridica. Il cantiere della globalizzazione ce l’abbiamo qui di fronte a noi e va affrontato. Siamo, per così dire, a un crocevia importante: temi molto caldi come l’emergenza climatica, la tenuta dei Paesi emergenti, la cybersicurezza sono sul tavolo e vanno affrontati. Proprio in questo momento, invece di rinchiuderci in noi stessi, dobbiamo ridiventare collettivi. E l’Europa ha una particolare responsabilità in questo senso». —




 

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