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Malvestio: «Costi di quotazione ancora alti. La trasparenza? È nel Dna delle imprese»

L’avvocato trevigiano sull’avvicinamento delle società del Nordest a Borsa e private equity: si consoliderà se il quadro legislativo resterà a favore

Luigi dell’Olio
3 minuti di lettura
Massimo Malvestio 

L’apertura del capitale che sta caratterizzando l’imprenditoria nordestina negli ultimi mesi è un fenomeno destinato a consolidarsi. Una novità che può dare nuova spinta competitiva al sistema produttivo locale, a patto che sia capace di fermare l’emorragia di giovani talenti. Questo nonostante la zavorra costituita dal venir meno di centri finanziari del territorio. Può essere sintetizzato così il pensiero di Massimo Malvestio, avvocato trevigiano con una lunga esperienza in campo finanziario, tra partecipazioni in società locali e la guida della società d’investimento Praude Asset Management.

Dopo che per anni si è detto della ritrosia degli imprenditori veneti verso l’apertura al mercato, negli ultimi mesi abbiamo assistito a diverse operazioni che hanno riguardato sia il lato equity, sia il debito. A cosa attribuisce questo cambio di rotta?

«Nel corso dell’ultimo anno sono cresciuti i multipli che il mercato riconosce alle società di ridotte dimensioni e questo ha spinto molte imprese a quotarsi. La stessa ragione spiega in parte il boom di investimenti da parte dei private equity, il cui obiettivo è valorizzare l’investimento nel medio periodo per poi rivendere. Va aggiunta anche una terza ragione, la spinta del legislatore. Dal Governo Renzi in avanti sono state approvate numerose misure per favorire la quotazione delle società di minori dimensione e per avvicinare il risparmio al capitale di rischio».

Ritiene che questa svolta sia congiunturale o strutturale?

«Penso che si consoliderà e si svilupperà se il quadro legislativo rimarrà favorevole. Certo, i costi di quotazione sono ancora molto alti e non proporzionati nei casi di imprese che puntano a raccogliere sul mercato soltanto qualche milione di euro. A favore di una progressiva apertura al mercato gioca anche il fatto che la trasparenza è ormai nel Dna della stragrande maggioranza delle nostre imprese, per cui le regole imposte dalla Borsa non sono percepite come un trauma, diversamente da quello che poteva accadere nel passato».

Non solo quotazioni, ma anche ingresso dei private equity nel capitale. In un territorio di Pmi come il Triveneto, a suo avviso i fondi sono più un’opportunità nella misura in cui spingono la managerializzazione delle imprese, o più un rischio di perdita di “sapere imprenditoriale”?

«Sono un’opportunità se l’imprenditore è in grado di gestirla. I fondi di private equity apportano capitali, che costituiscono una leva fondamentale per lo sviluppo delle imprese e quindi del territorio, e rafforzano i presidi di trasparenza nella comunicazione. Quando investono in quote di minoranza, costituiscono quasi sempre una ottima opportunità per imprenditori attrezzati per gestire il rapporto. Se invece acquistano la maggioranza facendo ricorso in maniera prevalente al debito e puntano a rivendere il prima possibile, senza mostrare alcun attaccamento verso l’impresa, la sua storia, la gente che ci lavora, il territorio che quell’impresa ha espresso, allora diventano socialmente pericolosi».

Alla luce della sua esperienza, sono capitati spesso casi di spoliazione dell’impresa?

«C’è senso di responsabilità tra gli imprenditori locali. In molti casi ho visto rifiutare prezzi allettanti proprio per evitare i rischi citati».

C’è grande attesa per il Pnrr, considerato l’ultima grande opportunità per accelerare in maniera strutturale la crescita del nostro Paese e questo porta in secondo piano che ci stiamo ulteriormente indebitando. Che idea si è fatto in merito?

«Il debito è esploso in quasi tutti gli stati europei, ma ormai una quota consistente è nelle mani della Bce - che è riuscita ad acquistarlo senza generare inflazione -, per cui si tratta, se si guarda alla sostanza, di una partita di giro. Questo significa che i parametri per valutare la sostenibilità del debito debbono cambiare, ma non deve essere un invito all’irresponsabilità sui conti pubblici, anche perché il ritorno dell’inflazione avvicina la fine della stagione dei tassi zero. Quanto al Pnrr, è importante che le risorse in arrivo vengano impiegate per investimenti in grado di sostenere la competitività del territorio. Il Triveneto deve fermare l’emorragia dei suoi giovani più qualificati e attrarre nuovi talenti. Occorre salvare il policentrismo del territorio: il Covid ha rilanciato i centri minori ed è un’opportunità enorme. Abbiamo carte straordinarie da giocare: non solo il paesaggio, ma anche la qualità della convivenza, un sistema sanitario ai vertici mondiali, le università e un sistema di imprese formidabile. Dobbiamo fermare la deriva a diventare periferia e su questo in effetti bisogna pensare un po' di più».

Occorre capacità di pensiero, ma sarebbe utile anche poter contare su un sistema finanziario vicino alle esigenze delle imprese locali. Invece nell’ultimo decennio sono sparite una dopo l’altra le banche del territorio.

«Il Triveneto non esiste più in termini bancari a parte Cassa Centrale a Trento e a parte la provincia di Bolzano. Le casse di risparmio, le banche popolari e quelle di credito cooperativo – persino quelle attraverso le capogruppo - sono state private dei rispettivi tratti tipici per via normativa e spinte verso il modello di Spa. Il legislatore agisce da anni per favorire un modello di banca che sia strutturata come società per azioni, quotata, possibilmente senza soci di maggioranza, gestita più dai compliance e dai regolatori che da banchieri. È il frutto delle paure che sono seguite al crollo di Lehman Brothers, ad alcune scadenti gestioni di banche locali (peraltro altrettanto pessime alcune grandi banche) , all’illusione dei regolatori di rendersi più facile la vita moltiplicando i controlli e le dimensioni delle banche: in questo schema i grandi hanno aggregato i piccoli e il Veneto policentrico è finito aggregato. Eppure fa obiettivamente impressione come il nostro territorio abbia subito questo approccio senza dire nulla, senza proporre un’alternativa. Quei pochi che hanno sollevato la questione hanno suscitato poco interesse, sicuramente meno del buffet offerto alla fine di ogni assemblea delle banche popolari. Ora si è persa anche Cattolica Assicurazioni, e in questo caso neppure sarebbero mancati i soldi. È così che si diventa periferia, un po' alla volta».

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