Cartabellotta: «I fondi del Pnrr sono briciole rispetto alle sfide della sanità nel post-pandemia»
Il presidente della Fondazione Gimbe: «Bisogna proteggere i più fragili: l’attuale tasso di copertura della quarta dose di vaccino al 30% non è sufficiente»
Piercarlo Fiumanò
Il prof. Nino Cartabellotta è presidente della Fondazione Gimbe, autorevole osservatorio nel campo della salute e di studio sull’andamento della pandemia in Italia.
Professor Cartabellotta, la pandemia impone un ripensamento del nostro modello di welfare e di protezione sociale fra pubblico e privato?
«Se vogliamo rilanciare un servizio sanitario pubblico, oggi equo e universalistico solo sulla carta, serve un totale ripensamento delle modalità di finanziamento, programmazione, organizzazione e valutazione e integrazione dei servizi sanitari e socio-sanitari. Ma servono un piano di rifinanziamento della sanità pubblica e coraggiose riforme di rottura».
Come migliorare l’efficienza del servizio sanitario sfruttando al meglio le risorse del Pnrr?
«Le risorse del Pnrr rappresentano briciole: circa 16 miliardi di euro in 5 anni (di cui 2/3 da restituire). Un lustro che vedrà oltre 650 miliardi di spesa sanitaria pubblica. Mi pare che la politica stia enfatizzando la rilevanza delle risorse del Pnrr per rilanciare la sanità, mentre al tempo stesso fa precipitare il rapporto spesa sanitaria/Pil al 6% nel 2025».
C’è una accesa discussione sulle strutture sanitarie intermedie della sanità pubblica che riguarda il problema di garantire la continuità assistenziale in molte regioni. Che ne pensa?
«Il sistema delle cure intermedie rappresenta oggi un irrinunciabile livello assistenziale perché si colloca all’interfaccia tra ospedale e assistenza territoriale: pazienti ospedalizzati che, superata la fase acuta, potrebbero proseguire le cure al proprio domicilio (per i quali è previsto l’ospedale di comunità) e offerta di servizi territoriali strutturata e organizzata come previsto dalle Case di comunità. Ma questo modello richiede una coraggiosa riforma della medicina generale per superare obsoleti modelli organizzativi cristallizzati da oltre 40 anni».
Avverte una crisi di vocazione nel sistema sanitario, pensiamo a medici e infermieri che sono stati in prima linea negli ultimi due anni?
«Per gli infermieri il problema precede la pandemia: il numero di iscritti a scienze infermieristiche è da anni inferiore rispetto ai posti disponibili e, ovviamente, al fabbisogno del Ssn. I medici iniziano a manifestare segni di stanchezza e burnout post pandemia che alimentano i fenomeni dei pensionamenti anticipati e della fuga verso il privato. Le condizioni contrattuali, la sicurezza sul lavoro, la progressione di carriera non sono sicuramente adeguate per la colonna portante del Ssn».
Sul fronte delle misure anti-Covid, l’Italia deve mantenere la linea del rigore?
«La popolazione è ormai molto stanca e la linea del rigore non pagherebbe. Ben venga la responsabilizzazione individuale, ma le istituzioni devono mettere in campo tutte le strategie per proteggere i più fragili: l’attuale tasso di copertura della quarta dose di circa il 30% con enormi differenze regionali dimostra che i fatti non concretizzano parole e buone intenzioni. Io consiglio sempre la mascherina nei luoghi chiusi, affollati e poco ventilati».
Quali misure di prevenzione e protezione del contagio, ad esempio negli ospedali, scuole e luoghi di lavoro, ritiene saranno necessarie anche in futuro?
«A mio avviso le mascherine in ospedale e nei luoghi di cura dovrebbero rimanere obbligatorie per sempre, indipendentemente dalle sorti della pandemia. Per il resto le misure dovranno essere proporzionate all’entità della circolazione virale e al livello di copertura vaccinale, in particolare di anziani e fragili».
In quale fase della pandemia ci troviamo?
«In una fase di relativa stabilità della circolazione virale, anche se largamente sottostimata. Se non arrivano varianti più contagiose e/o più immunoevasive dovremmo superare indenni l’inverno».
L’Italia può esser competitiva nella corsa verso la realizzazione di nuovi vaccini? E soprattutto ce ne saranno di nuovi?
«La vera sfida è riuscire a produrre un vaccino contro le varianti, attuali e future, con maggiore efficacia sulla prevenzione dell’infezione e maggior durata nella copertura della malattia grave. Personalmente sono molto scettico su grandi progressi della ricerca, sia per gli imponenti investimenti richiesti, sia per le complessità metodologiche a condurre nuovi studi, sia perché ormai il grande business è finito. L’Italia? No, non siamo assolutamente all’altezza: non per il livello dei ricercatori ma per la (scarsa) rilevanza che la politica assegna alla ricerca».
In un mondo interconnesso come valuta a quanto sta accadendo attualmente in Cina nella gestione della pandemia? Esiste il pericolo di nuove varianti?
«In Cina la campagna vaccinale è stata poco incisiva: si è vaccinato poco, in particolare anziani e fragili, utilizzando un vaccino poco efficace sulla malattia grave. Inoltre, la strategia “zero Covid”, in presenza di una variante estremamente contagiosa come Omicron, si è dimostrata inutile e costosa. E in un contesto di limitata immunizzazione della popolazione, sia naturale che da vaccinazione, quando ai primi di dicembre sono state allentate le restrizioni, è stato inevitabile registrare una netta ripresa della circolazione virale e un rilevante impatto su ospedalizzazioni e decessi. Al momento non ci sono evidenze di nuove varianti».
I commenti dei lettori